“Tibet, guerra di cifre sulle vittime secondo Pechino sono solo dieci.
La tv cinese mostra le immagini degli scontri e dà la colpa all’opposizione. Il governo tibetano in esilio parla di 100 morti e chiede l’intervento dell’Onu. L’appello del Dalai Lama: “La Cina smetta di usare la forza”.
PECHINO – Adesso Pechino ammette che negli scontri di Lhasa ci sono stati dei morti. Almeno dieci dice l’agenzia Nuova Cina che attribuisce la responsabilità delle vittime ai manifestanti tibetani: “Le vittime sono tutte civili innocenti, bruciati a morte”. Tra loro vi sarebbero due dipendenti di un albergo e due negozianti. Ancora le stesse fonti parlano di un centinaio di negozi saccheggiati.
Ma il bilancio, secondo il governo tibetano in esilio a Dharamsala, nel nord dell’India, sarebbe molto più drammatico. I morti, soprattutto manifestanti, sarebbero cento. Nel darne comunicato, il governo in esilio ha chiesto l’apertura di una inchiesta da parte dell’Onu con l’invio immediato di rappresentanti a Lhasa che intervengano a porre fine alle numerose violenze cinesi che rappresentano violazioni continue dei diritti umani.
Il Primo Ministro del governo tibetano in esilio, Samdhong Rinpochè, ha poi affermato di “sperare che la Cina, che ha messo fine nel passato al movimento democratico di piazza Tienanmen, agisca in questa situazione con compassione e saggezza”.
La tv cinese intanto ha mandato in onda delle immagini da Lhasa tutte tese a sostenere la tesi della violenze perpetrate dalla protesta: nei video si vedono solo manifestanti che attaccano negozi e alberghi. La rivolta dei monaci e dei tibetani contrari al regime cinese, dunque, continua. Testimoni hanno riferito che le strade di Lhasa sono presidiate da carri armati e blindati e che le vittime sarebberop molte di più. Si parla di almeno ottanta cadaveri contati sulle strade di Lhasa.
Da lunedì centinaia di persone, poi diventate migliaia guidate da monaci buddhisti aveavno manifestato a Lhasa e in altre località del Paese nell’anniversario della sanguinosa repressione del 1959 della rivolta contro i dieci anni di dominazione cinese, che portò all’esilio del Dalai Lama, il leader spirituale del Tibet. Poi, i monaci sono stati praticamente relegati nei monasteri assediati dalla polizia cinese, ma le manifestazioni sono proseguite, alimentate da migliaia di giovani che si sono scontrati con le forze dell’ordine.
E da Dharamshala, sede del governo tibetano in esilio, una seconda ondata di tibetani ha deciso di opporsi agli ordini del governo indiano riprendendo la marcia verso il Tibet. Mentre 102 tibetani sono ancora in carcere, un secondo gruppo di 44 persone è partito stamattina alle 10. “Le proteste coraggiose dei tibetani in Tibet – ha dichiarato Chime Youngdrung, presidente del partito nazionale democratico del Tibet – ci hanno reso ancor più determinati nel voler continuare questa marcia e portarla a termine. Poichè siamo testimoni di una escalation di violenze da parte del governo cinese a Lhasa, crediamo che sia importante per noi ritornare a casa per riunirci con i nostri fratelli e sorelle che stanno combattendo per sopravvivere sotto l’occupazione cinese”.
Dal Dalai Lama è partito un appello alle autorità cinesi: “Queste proteste – ha sottolineato la guida spirituale tibetana – sono una manifestazione del radicato risentimento del popolo tibetano sotto l’attuale governo. Mi appello ai dirigenti cinesi perché smettano di usare la forza e affrontino tale risentimento attraverso il dialogo con il popolo tibetano. Come ho sempre detto, l’unità e la stabilità ottenuti dalla violenza bruta possono al massimo essere una soluzione temporanea. E’ irrealistico aspettarsi unità e stabilità sotto un simile governo e questo non contribuirà a trovare una soluzione pacifica e durevole”.
Anche dagli Stati Uniti è arrivato un monito alla moderazione rivolto alle autorità pechinesi che, intanto, hanno proseguito la loro normale attività politica. Ieri, il presidente Hu Jintao è stato rieletto per un secondo mandato di cinque anni dall’Assemblea Nazionale del Popolo, riunita a Pechino nella sua unica sessione annuale. Già rieletto segretario del Partito Comunista in ottobre Hu, che ha 65 anni, ha avuto il 99,7% dei voti quasi tremila deputati dell’Assemblea ed è stato riconfermato alla testa della potente Commissione Militare Centrale. Nella stessa seduta il suo erede designato, il 54enne Xi Jinping, è stato eletto vicepresidente della Commissione, un posto che viene tradizionalmente occupato dal “delfino” del leader in carica.
I massimi leader non hanno commentato finora gli avvenimenti del Tibet, lasciando ai leader locali come il presidente della Regione Autonoma del Tibet Qiangba Puncog il compito di denunciare “la cricca del Dalai Lama” quale responsabile dei disordini. (15 marzo 2008)” repubblica.it
Liberate il Tibet! Free Tibet! Non dico di boicottare i GIochi Olimpici, che e’ stupido, ma spero che tutti gli atleti manifestino il loro dissenso, con compostezza e buon senso, in questo evento mediatico che si terra’ in una nazione ottusa ed accecata dal capitalismo (ma non erano comunisti?). Quanto vorrei vedere sventolare la bandiera del tibet in mano alle medaglie d’oro…
Spero di non dilungarmi troppo nel dire come la penso, ma comunque sia nella ex Birmania, ora Myanmar, è in atto una sanguinosa repressione delle manifestazioni di dissenso nei confronti del feroce regime instauratosi dopo un colpo di stato nel 1988 e da allora al potere con il sostegno del governo cinese. Si tratta di una giunta militare d’ispirazione marxista che approfitta della presenza sul proprio territorio di parecchie multinazionali senza scrupoli per darsi una patente di liberalità agli occhi della comunità internazionale. Ma ha i tratti tipici delle dittature comuniste nella presenza al potere di tutti gli uomini che provengono dall’apparato del Partito, nella retorica dei suoi leader, nei propri simboli di riferimento, nella repressione crudele di ogni libertà, nella gestione statale di tutta l’economia nazionale.
Eppure, come spesso capita in questi casi, l’aggettivo comunista scompare nelle cronache giornalistiche dalla regione est-asiatica e nelle dichiarazioni pubbliche dei partiti della sinistra italiana. Per questo ho provato una grande rabbia nel vedere sui muri della mia città dei manifesti prodotti dal neo-Partito Democratico inneggianti ai protagonisti della rivolta in Myanmar, recanti la dicitura: “Democratici come noi”. Non potevo non replicare loro.
Noi di Azione Giovani siamo al fianco dei monaci, degli studenti e della popolazione birmana perché si tratta di gente coraggiosa, che si batte per la propria libertà contro una dittatura sanguinosa, e che non merita la solita ipocrisia dei finti pacifisti.