Arthur Machin è grosso. Arthur Machin è forte. Arthur Machin è sfrontato. Sicuro di sé. Sbruffone. Arthur Machin è una seconda linea nata. Lo capiscono tutti non appena fa il provino per la prima squadra di rugby a Primeston, Nord dell’Inghilterra, terra di industrie, miniere e cielo grigio. Ha un fisico come pochi, con la palla in mano sa il fatto suo e possiede un placcaggio devastante.
Inizia così, con sei denti rotti la vigilia di Natale, la storia di un ragazzo nato povero come tanti, durante la guerra, che trova nei campi infangati e nebbiosi un riscatto sociale, ma che fatica a trovare se stesso. Automobili sempre più grandi, televisione, pellicce, ristoranti di lusso, donne, servizi sui giornali e nei notiziari della sera; tutto questo non cancella il senso di inadeguatezza, di casualità, il terrore che la musica possa finire da un momento all’altro.
Ma chi è davvero Arthur Machin? È quello che la gente vuole che sia? Un bestione da circo, rozzo e attaccabrighe, che si esibisce il sabato di fronte a migliaia di spettatori e che poi va in cerca di guai nei club della città? È il cattivo ragazzo che non è? O che è ma non più degli altri.
Nemmeno Arthur lo sa. Tutti gli dicono soltanto che lui è il rugby, “socialmente, o in tutto il resto”.
Il rugby è quello a XIII, della League, già professionistico, dove girano un po’ di soldi. Il dilettantismo resta prerogativa dell’aristocrazia londinese, che non ha un disperato bisogno di sterline e che si convertirà ai contratti milionari soltanto alla fine del XX secolo, provocando un travaso continuo di talenti dalla League alla Union.
L’atmosfera creata da Storey (ex giocatore professionista) è la stessa che si può ritrovare quasi quarant’anni dopo in David Peace e nel suo Red Riding Quartet. Il sangue è solo quello dei pugni e delle ferite, dei denti rotti, va bene, ma riviviamo lo stesso mondo livido di pioggia e di fatica, di miserie familiari e di ricerca di dignità, di una via di fuga da vite che paiono già scritte.
Lo sport diventa il miraggio della notorietà, dell’affrancamento dai lavori usuranti nelle industrie o nelle miniere, della non rassegnazione, del poter avere tutto e subito con l’accondiscendenza della società, perché alle star viene concessa ogni cosa. Ma diventa anche una macchina infernale che ti usa e ti trita, per poi scaricarti alla stessa fermata dove eri salito.
Sullo sfondo plumbeo e fradicio sta il rugby, quello vero. Storey non concede una sola parola alla retorica, agli stereotipi, alla celebrazione di un mito che altri vogliono costruire. Quello che ne esce è un rugby vivo, fremente, necessario, anche corrotto e marcio, ma per questo terribilmente reale e vicino alla vita. Proprio per questo “uno sport meraviglioso. È praticamente l’unico sport da uomini che è rimasto”.
in riferimento a: scrutando nel buio: Il campione (D. Storey) (visualizza su Google Sidewiki)